Energia e ambiente: salvaguardare l’ecosistema o il profitto? A cosa punta il Ministero della Transizione Ecologica

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Il governo ha deciso di riformare il vecchio Ministero dell’Ambiente, adattandolo ai recenti obiettivi imposti dall’Unione Europea in materia di cosiddetto green deal. Il primo atto ha dato vita al Ministero della Transizione Ecologica che, non a caso, ha allargato i propri ambiti di intervento anche nel campo delle energie, originariamente di competenza del Ministero dello Sviluppo Economico.

Non stupisce che questa scelta, apparentemente dettata dalla necessità di una trasformazione ecologica attraverso uno sviluppo sostenibile, abbia preso corpo solo dopo la pianificazione del Recovery Plan. Su 310 miliardi, ben 68,9 miliardi sono quelli destinati alla Transizione Ecologica, contro i 19,7 che verranno stanziati per la Sanità. Circa un quinto dell’intero ammontare. Più dettagliatamente 18,2 miliardi sono destinati alle energie rinnovabili, alla produzione di idrogeno e alla mobilità sostenibile; 29,35 miliardi serviranno all’efficientamento energetico e alla riqualificazione degli edifici; 15 i miliardi da utilizzare per la tutela del territorio e della risorsa idrica.

Per predisporne la gestione, il neo-Ministero si è dotato di un piano, presentato in pompa magna e per la prima volta non solo alla Commissione Ambiente della Camera dei Deputati e del Senato, ma congiuntamente alla Commissione Industria. Una novità che da un’attenta analisi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) lascia ben intendere il vero obiettivo del nuovo programma di governo.

Come la dice lunga la scelta del ministro Roberto Cingolani di fissare come primo macro obiettivo la semplificazione burocratica, promettendo una serie di riforme che consentiranno ad esempio, un’accelerazione per le concessioni e le autorizzazioni per la costruzione di nuovi impianti per il trattamento dei rifiuti, dai quali estrarre energia. Gli stessi impianti che, durante il processo di incenerimento o gassificazione dei rifiuti, rilasciano nell’atmosfera elevate particelle di PM10, considerate tra le cause primarie dell’aumento dei tumori tra gli abitanti delle zone vicine agli impianti.

Anziché porre al primo posto la lotta agli abusi ambientali, quali la cementificazione selvaggia, lo sfruttamento eccessivo dei terreni o le dispersioni idriche, solo per citarne alcuni, la priorità sembra essere ancora una volta orientata verso lo sviluppo industriale e il profitto economico, a vantaggio delle grandi imprese che scalpiteranno per trarne il maggior guadagno e dove una massiva produzione di energia diventa l’elemento centrale, soprattutto in previsione del passaggio al mercato libero fissato al 2023. Quando cioè le tariffe di luce e gas per gli utenti non saranno più tutelate dallo Stato, attraverso l’Autorità di Regolazione per Energia, Reti e Ambiente (ARERA) ma saranno demandati interamente alle aziende private che saranno libere di determinarne il prezzo. Un’ulteriore privatizzazione di beni e servizi di prima necessità, che vede nelle scelte del governo la volontà di sottrarsi al ruolo di garante pubblico nella gestione e nell’erogazione dei servizi di pubblica utilità.

Lo sviluppo ambientale, quindi, risulta del tutto assoggettato allo sviluppo economico, dove la competitività e la redditività imposte dal mercato, rischiano di creare grossi volumi di affari per le aziende a danno della tanto decantata riconversione ecologica.  

Un esempio fra tutti, l’idea avanzata di concerto con il Ministero per il Sud e la Coesione territoriale, di concentrare molti degli impianti di fonti rinnovabili proprio nelle aree del Sud del paese, dove le caratteristiche del territorio e una più ampia disponibilità delle risorse primarie, renderebbe in termini di maggiore produttività economica.

Agli occhi dei più attenti è evidente come il processo di ristrutturazione dell’industria, associato a quello della digitalizzazione fortemente voluto ed imposto dall’attuale governo, stia portando alla luce un’altra emergenza, quella occupazionale. La delocalizzazione degli impianti e delle attività, se da una parte potrebbe rappresentare per alcuni territori un’opportunità di nuova occupazione, dall’altra causerebbe un’emorragia occupazionale notevole nelle aree dove le imprese riterranno meno remunerativo continuare ad investire. O come nel caso di un ritorno all’impiantistica nel settore dei rifiuti, che causerebbe una drastica riduzione del fabbisogno di manodopera per tutte quelle attività legate alla raccolta della differenziata domiciliare.

È forse in questo ultimo atto, di cui troppo poco si legge nel progetto di governo sull’ambiente, che trova il suo significato la parola resilienza, contenuta nel titolo del PNRR? Imparare a piegarsi ad un modello capitalistico che vorrebbe cittadini e lavoratori capaci di adattarsi a tutto, in nome del profitto?

Non è di certo questo il modello virtuoso che uno Stato, che ha realmente a cuore il benessere sociale ed economico del Paese, dovrebbe perseguire.

Uno sviluppo sostenibile non può esser ritenuto tale, se si basa prevalentemente sull’incremento dei finanziamenti alle imprese private e mira al depotenziamento della gestione pubblica delle risorse e dei servizi di prima necessità.  

Perché a farne le spese non sarà solo il nostro Paese, ma anche chi lo abita, tra mille difficoltà. 

 

Unione Sindacale di Base – Lavoro Privato

 

29-3-2021

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