La lunga storia di una crisi di sistema, scenari e proposte, intervista a Luciano Vasapollo
In una bella e utile intervista rilasciata al sito controlacrisi.org, il prof. Luciano Vasapollo, dopo aver ricostruito dal punto di vista storico la genesi della crisi economica in atto, chiarisce la differenza tra crisi congiunturali, strutturali e sistemiche, spiegando il punto di vista ormai consolidato del centro studi CESTES-PROTEO dell'USB per quanto riguarda sia l'analisi marxista che le prospettive politiche e sociali dell'attuale fase internazionale: dal ruolo delle lotte in Grecia per l'Europa ai più generali equlibri internazionali. Una bussola fondamentale per orientarsi, tanto dal punto di vista teorico che politico, tra le diverse opzioni che il dibattito politico mette in campo, mantenendo la stella polare dell'indipendenza e dell'autonomia, andando così oltre le posizioni keynesiane standardizzate.
Autore: Stefano Galieni - controlacrisi.org
La  crisi attuale e le turbolenze in Europa di questi mesi vanno lette per  Luciano Vasapollo, Professore di economia applicata all’Università La  Sapienza e Direttore di  Cestes – Proteo (Centro Studi dell’USB),  all’interno di un processo storico-economico  molto lungo di cui bisogna  assolutamente tenere conto in maniera puntuale per capirne la reale  entità.
«Quanto sta accadendo oggi è la conseguenza  politico-economica  di quanto avviene da molti anni e non è un   dettaglio comprendere la tipologia, l’origine e gli effetti di questa  crisi. Nel modo di produzione capitalista si possono, in termini  marxiani definire e analizzare tre tipologie di crisi, quella a  carattere congiunturale, quella strutturale e quella sistemica. Oggi  tutti parlano di crisi sistemica ma pochi sanno veramente di cosa si  tratta, ed inoltre quando noi analisti marxisti ne parlavamo in tempi  non sospetti già negli anni novanta nessuno ci dava credito».
E quali sono le differenze sostanziali?
«La  crisi congiunturale è da considerarsi “normale”, poiché non è vero che  il modo di produzione capitalistico è in equilibrio o in costante  crescita quantitativa. Aveva perfettamente ragione Marx quando  individuava le crisi come fase interna del ciclo in un modello economico  produttivo di disequilibrio, e quindi  fasi di sovrapproduzione,  situazione che obbliga alla conseguente irrinunciabile condizione di   bruciare forze produttive, distruggendo cioè forza lavoro e capitali in  eccesso, materiali, tecnologici e finanziari, per poter ricreare le  condizioni di una crescita capace di realizzare masse e tassi di  profitto reputati “soddisfacenti” e ottenuti  attraverso gli  investimenti di plusvalore in nuovi processi di accumulazione del  capitale a maggiore profittabilità . 
La grande  crisi del 1929   assume invece caratteri di strutturalità poiché il capitale  internazionale aveva bisogno di un nuovo e diverso modello di  accumulazione, anche se  la stessa crisi di allora appariva o veniva  presentata come quella di oggi come fosse di carattere finanziario, ma  in realtà partiva da una profonda crisi dei fondamentali macroeconomici  dello stesso modo di produzione capitalistico. Si è usciti da tale crisi  con la messa a produzione di massa del fordismo e del taylorismo, e   applicando il modello keynesiano di sostenimento della domanda   realizzando un grande intervento pubblico, cioè innalzando gli  investimenti in spesa pubblica, che non si traduce immediatamente in  spese sociali. 
Tanto è che dalla crisi del 1929 non si è usciti  con il new deal ma attraverso il  keynesimo militare che esprime il suo  massimo livello con la seconda guerra mondiale e con la stessa  ricostruzione post- bellica. Gli Stati Uniti diventano la nuova  locomotiva mondiale allo sviluppo capitalistico, infatti rafforzando  l’apparato industriale militare nella preparazione alla guerra e non  dovendosi neanche preoccupare a guerra finita della loro ricostruzione  perché non subiscono danni nel loro territorio, possono dedicare risorse  da destinare agli investimenti produttivi nella ricostruzione dopo i  danni di guerra subiti dai paesi europei, realizzando così un forte  interventismo statale  attraverso la politica degli aiuti sul modello  dei “Piani Marshall”. 
Tale situazione permette agli USA di   realizzare un proprio  sviluppo economico basato soprattutto sull’import  e sull’indebitamento, interno , esterno, pubblico e privato. Una  economia così strutturata sull’indebitamento poiché basata  sull’importazione, determina quantità di dollari e di titoli in dollari  certamente superiori alla ricchezza realizzata dagli Stati Uniti,  contravvenendo così alle regole basilari degli accordi di Bretton Woods.  
I paesi creditori accumulano così valuta USA in un mondo  fortemente  “dollarizzato”. Si arriva al punto a fine anni ’60 che i  dollari in circolazione a livello mondiale sono almeno sei volte la  ricchezza degli Stati Uniti e quindi di fatto gli accordi di Bretton  Woods inevitabilmente saltano per una imposizione unilaterale da parte  degli Usa, che vogliono campo libero per un ulteriore sviluppo del loro  modello importatore-debitorio da imporre al mondo  in termini  politico-commerciale o anche politico-militare espansionistici. 
Anche perché intanto muta lo scenario mondiale?
«Infatti  nel frattempo entrano in campo due nuovi competitori internazionali,  cioè i Paesi sconfitti nel conflitto, la Germania e il Giappone, che  scelgono per la  ricostruzione e il rafforzamento del proprio sistema di  sviluppo interno, un modello capitalistico diverso da quello  statunitense, meno aggressivo. Tale modello è stato definito renano –  nipponico, e si basava soprattutto su un forte e riqualificato apparato  industriale, in funzione di una articolata e competitiva propensione  all’esport, mantenendo un ruolo importante dell’impresa pubblica; un  modello sostenuto da un consociativismo con le forze sindacali  controbilanciato da un capitalismo più a carattere sociale rispetto a  quello USA, o meglio anglosassone, definito anche capitalismo aggressivo  e selvaggio. Il modello renano-nipponico ha permesso a tali paesi un  forte rafforzamento dell’apparato industriale interno, mantenendo salari  relativamente più alti, imponendo così una condizione di bassa  conflittualità sociale.  Tale strutturazione ha creato da subito  problemi competitivi agli Usa che verso il Giappone hanno scatenato una  vera guerra speculativa per diminuire la competitività internazionale  del Giappone e dello yen. La Germania nel frattempo continua il proprio  rafforzamento industriale con una forte capacità esportatrice e per  poter mantenere tale modello aveva bisogno di una moneta forte e di  un’area europea che assumesse i caratteri di polo economico-commerciale e  monetario a guida tedesca, e per far ciò necessitava eliminare  competitori interni a tale nuovo polo geoeconomico  deindustrializzandoli  e rendendoli dipendenti dall’esport della  Germania.. 
È allora che comincia la crisi sistemica che oggi vediamo chiaramente. 
Intanto  con  la fine degli accordi di Bretton Woods nel 1971 si evidenzia anche  l’inizio dell’attuale crisi sistemica, a causa delle stesse difficoltà  nel realizzare da parte del capitale internazionale un nuovo modello di  accumulazione in grado da permettere non solo la crescita della massa  complessiva del plusvalore ma tale che sappia mantenere per i paesi a  capitalismo avanzato quei tassi di profitto reputati congrui per far  ripartire il sistema ai livelli di crescita alla profittabilità  desiderata .
Gli effetti di tale crisi portano necessariamente  all’acuirsi della competizione globale, che viene definita come la nuova  fase della globalizzazione; in effetti una nuova fase della  mondializzazione capitalista in cui a globalizzarsi in effetti è  l’espansione soffocante della finanza. In effetti la crisi sistemica del  capitale necessita della globalizzazione neoliberista che sviluppa  politiche economiche restrittive  tese a contrarre i salari diretti,  indiretti e differiti e contemporaneamente a tentare di aumentare la  massa dei ricavi, per compensare la evidente caduta tendenziale del  saggio di profitto. Si cerca così di invadere nuovi mercati attraverso  nuovi progetti e modalità di presentarsi degli imperialismi, a matrice  USA ed euro-germanica, a carattere economico-politico-militare per  tentare di risolvere la crisi. Agli altri paesi europei viene imposta la  deindustrializzazione e la delocalizzazione dell’attività produttiva in  un nuovo disegno della divisione internazionale del lavoro. 
Si  sviluppa in tal modo la cosiddetta fase della globalizzazione  neoliberista partendo da forti processi di deregolamentazione dei  mercati, abbattendo il ruolo interventista nell’economia da parte degli  Stati, puntando ad un modello di competizione globale che sviluppa in  primis un attacco senza precedenti al costo del lavoro e  contemporaneamente processi di delocalizzazione produttiva (in paesi con  lavoro a basso costo ma specializzato, non normato e non  sindacalizzato, in questo modo si fa piazza pulita dell’industria dei  maggiori  competitori europei con la Germania), esternalizzazioni,  privatizzazioni e dirottando risorse su una finanza aggressiva e  destabilizzante, tentando di realizzare con le rendite quanto non si  riusciva ad ottenere  in termini di profitti. 
Il Marco non può  farcela a reggere alla competizione internazionale con l’area del  dollaro se non si crea un polo economico commerciale europeo che metta  la moneta tedesca in condizione di competere col dollaro e con  un’economia della Germania che possa ambire a diventare la nuova  locomotiva del capitalismo internazionale. 
Insomma fin dagli anni ’70 si gettano le basi per la costruzione dell’Europa dell’euro e del polo imperialista europeo». 
 Quindi l’euro è di fatto una moneta che sostituisce il marco?
«La  costruzione del polo imperialista europeo di fatto  avviene sulle  necessita competitive internazionali della Germania; pertanto lo stesso  euro è da considerarsi una sorta di Super Marco, ed infatti i tassi di  cambio imposti agli altri paesi europei non sono stati pesati  in base  alla ricchezza dei singoli Stati ma in funzione delle necessità  competitive politico-economiche e politico-monetarie della Germania. Non  è un caso che nei mesi successivi all’introduzione dell’euro, ad  esempio, in Italia.  il potere d’acquisto dei  salari di fatto si  dimezza poiché con un euro si acquista in pratica più o meno ciò che  pochi mesi prima si acquistava con mille lire e non con le 1936 imposte  dalla quotazione di cambio dell’euro. 
La costruzione del polo  euro-germanico necessita di una nuova divisione europea del lavoro nel  quale i paesi dell’Europa meridionale-mediterranea si trasformino in   aree di importazione, infatti proprio i dati di maggio 2012 confermano   che il 45% delle esportazioni tedesche si riversano proprio nell’are  europea. Si risolvono così, quindi, le necessità competitive del modello  tedesco che evidenzia significativi surplus  della bilancia dei  pagamenti che trovano possibilità di investimento ad alto rendimento  acquisendo il deficit della bilancia dei pagamenti degli altri paesi  europei in particolare quelli mediterranei, cioè acquistandone i loro  titoli  del debito pubblico. Il surplus tedesco è determinato dal  proprio modello di esportazione che realizza profitti sull’import degli  altri paesi europei, i quali essendo ormai deindustrializzati sono  costretti ad indebitarsi sempre più e alla fine il surplus finanziario  tedesco realizza rendite dall’acquisto dei titoli del debito pubblico  dei PIIG. Ci sono surplus  finanziari che non possono restare immobili  quindi la Germania si compra i titoli del debito pubblico dei PIIGS.(  volgare acronimo, che significa maiali, utilizzato dai potentati del  capitale per identificare la marginalità resa utile e indispensabile per  sorreggere l’impianto imperialista euro-tedesco) ».
Ma il problema è il debito pubblico?
«In  realtà i dati ci confermano che ad essere fuori controllo è il debito  privato, soprattutto delle banche e delle grandi imprese, e il debito  pubblico si è formato nel tempo non per l’eccessiva spesa sociale.  Infatti ad esempio in Italia l’impennarsi del debito pubblico è dovuto  alle scelte dei governi già dagli anni ’70 di accettare per ragioni  politico-clientelari livelli incompatibili di evasione fiscale  funzionale al sistema partitico e politico-economico; elargizioni  clientelari al sistema di impresa attraverso incentivi,  defiscalizzazioni, rottamazioni, ecc.; stanziamenti di cifre altissime  per grandi opere pubbliche mai realizzate e utili solo per foraggiare il  circolo perverso di imprenditoria criminale, tangenti  politico-partitiche, malaffare e criminalità organizzata; sperpero di  spesa pubblica ma non sociale con finanziamenti legali, illegittimi e  illegali al sistema dei partiti e alla politica affaristica. 
Il  debito pubblico serve a determinare le condizioni di delegittimazione  del ruolo dei singoli stati in campo economico e politico  per creare lo  Stato sovranazionale europeo, cioè il passaggio al super Stato politico  europeo che necessariamente porta a creare deficit di democrazia, a  stabilire la sovranità della super Germania. 
I piani di  ristrutturazione della Bce verso i PIGS sono serviti a costruire questa  Europa e  la Bce sta facendo  quello che l’Fmi ha fatto per l’America  latina, attraverso i piani di aggiustamento strutturale, Pas, o piani di  austerità, agendo con privatizzazioni, abbattimento della spesa  sociale, riduzione del costo del lavoro e creazione di precariato  giovanile e non. 
Ma ora la stessa costruzione del sovrastato europeo  è messa in ginocchio dalla crisi di sovrapproduzione che sta  realizzando anche quella di sottoconsumo per contrazione dei redditi da  lavoro. L’austerità non può andare di pari passo con la crescita; le  politiche restrittive servono solo per ultimare la resa dei conti di  classe contro il movimento dei lavoratori e per delegittimare  definitivamente il ruolo degli Stati-nazione abbattendo ciò che rimane  dell’economia pubblica. 
Ma è evidente che  non esistono  soluzioni di carattere economico alla crisi sistemica. Non si possono   certo risolvere i problemi della crisi, come vorrebbero la maggior parte  dei partiti della sinistra europea e gli economisti keynesiani che a  volte ancora si autodefiniscono marxisti,  dando il ruolo di prestatore  di ultima istanza alla Bce (che oggi  presta denaro alle banche con un  interesse all’1% mentre i titoli emessi hanno il 6% di interesse)  e  permettendo le emissioni di eurobond che dovrebbero servire a coprire il  debito. Seguendo le ricette imposte siamo come soggetti che sanno quale  è il proprio boia, danno il proprio collo e preparano il nodo. Non se  ne esce certo da una crisi sistemica del capitale internazionale con  improbabili e anacronistiche soluzioni economico – keynesiano che  puntano all’impossibile coniugazione fra  austerità e politiche  espansive per la crescita in quanto illogiche sul piano macr4oeconomico  oltre ad essere impossibili sul piano politico-economico. Nelle regole  dell’economia si parte da un equilibrio  ma se mancano le risorse  bisogna andare a prenderle da qualche parte. Per arrivare ad oggi i  titoli greci sono in mano tedesca, potrebbero mettere in conto di  abbandonare Atene ma piazzare i titoli al 2,5%».
Tu quindi chiedi una soluzione politica?
«Le  ricette di partiti come il Pd che appoggiano in todo il governo Monti  sono suicide e indietro storicamente, economicamente e politicamente  anche rispetto a quello che pensano molti uomini politici ed economisti   che si richiamano  alla destra berlusconiana o addirittura più  radicale. Inutile offrirsi all’altare sacrificale imposto dalla Germania  sperando di entrare fra i potenti addossando tutti i costi della crisi  ai lavoratori. Quello che sta attuando il governo dei professori  bocconiani e clerico-confindustriali contro il mondo del lavoro non era  riuscito a farlo neanche Berlusconi, poiché si sta subendo totalmente la  ristrutturazione imposta dalla borghesia tedesca. Quanto accaduto  attraverso le politiche economiche negli ultimi otto mesi rischia di  costituire  le fondamenta per costruire la nuova forma-Stato d’Europa  per i prossimi 30 anni. Ma sta rinascendo un forte conflitto sociale,  malgrado anche la posizione accondiscendente e consociativa del partito  di Bersani e dei suoi utili alleati dei sindacati confederali, che  fingono inappropriate proteste ma accettano la filosofia del disegno  politico complessivo. Il parlamento abbatte lo stato di diritto e  modifica la Costituzione con una maggioranza trasversale, ma sono ormai  politicamente talmente deboli e non rappresentativi della società reale  che sono bastate le proteste di massa contro Equitalia per annunciare  l’utilizzo dell’esercito rievocando i tristi periodi della democrazia  repressiva antipopolare e a connotato fascistoide».
Le  elezioni in Grecia potrebbero essere decisive in tutti i sensi anche a  favore del rilancio di un forte e organizzato movimento dei lavoratori  europeo?
« Auspico una vittoria delle sinistre di  classe in Grecia perché potrebbero riaffermare un forte protagonismo  sociale e le possibilità di uno sviluppo autodeterminato in molti paesi  europei. Oggi la sinistra di classe greca, che non può assolutamente  prescindere dal ruolo chiave del KKE e dalla forza conflittuale del  sindacato del PAME, potrebbe porsi come punta più avanzata del conflitto  sociale europeo contro le politiche dell’euro e della troika.
I  compagni greci si devono assumere la responsabilità politica insieme  alle altre organizzazioni sociali e del  sindacato conflittuale di  indicare al movimento dei lavoratori europeo, a partire da quelli dei  paesi PIIGS, una soluzione tutta politica rilanciando una battaglia per  la fuoriuscita dall’Europa dell’euro su un terreno di classe; un  percorso di lotte e organizzazione per far convivere i momenti  rivendicativi tattici con la capacità di rilanciare attraverso la lotta  il protagonismo sociale e sindacale che si sappia coniugare con la  prospettiva strategica sull’orizzonte della trasformazione radicale in  chiave socialista. Per far ciò serve una proposta e un percorso tutto  politico e non di accettazione delle compatibilità economiche per quanto  edulcorate e a carattere apparentemente sociale, ponendosi da subito  fuori dall’euro dell’Europa imperialista e per la costruzione di  un’area  che si muova da subito sul terreno dell’anticapitalismo.
Un  forte e organizzato movimento di classe a partire dall’Europa  Mediterranea , potrebbe imporre attraverso una forte e radicale legge  patrimoniale,una congrua tassazione di tutti i capitali, una effettiva  redistribuzione del reddito ma soprattutto della ricchezza già a partire  da riforme strutturali  che riconoscano il reddito minimo garantito  universale, la gratuità di tutti i servizi essenziali, un piano di  edilizia pubblica e popolare, la protezione  e il salario pieno per  tutti i lavoratori.
Il fulcro centrale della proposta deve però  partire dalla nazionalizzazione delle banche per il controllo sociale  dei flussi di credito da indirizzare prioritariamente a investimenti  socialmente utili ponendo da subito la questione della nazionalizzazione  dei settori strategici e la statalizzazione dei  cosiddetti settori in  crisi. 
Basti pensare a quanto accaduto nei paesi dell’ALBA in  America latina, dove si è realizzata una vera e propria inversione di  tendenza sociale attraverso il distacco degli organismi del capitale,  come l’FMI, con le nazionalizzazioni dei settori strategici come le  comunicazioni, l’energia, i trasporti , con forti investimenti sociali  sorretti da una propria Banca del Sur. 
Da noi bisogna realizzare  lotte e percorsi di un nuovo protagonismo sociale capace di invertire i  rapporti di forza da parte delle organizzazioni di classe per elaborare  un programma tattico e strategico. 
Se si esce da soli dall’euro,  cioè con una decisione unilaterale di un solo paese, si viene certamente  investiti dalla speculazione internazionale capace di spezzare le  possibilità di uno sviluppo autodeterminato.
Se la sinistra greca  vince dovrebbe  pensare a mettersi alla guida del movimento di classe  europeo per costruire una vasta area dell’alternativa anticapitalista,  che prendendo di petto la questione del debito e imponendo il suo non  pagamento alle banche europee e alle società finanziarie internazionali  sappia porre le basi per la costruzione di un’area di paesi che si doti  di una propria moneta e di un auto centrato modello di sviluppo fuori  dalle logiche del profitto e dello sfruttamento capitalista (nel nostro  libro “Il risveglio dei maiali PIIGS”, già alla seconda edizione 2012  per l’editore Jaca Book, chiamiamo tale moneta LIBERA per l’area ALIAS  che potrebbe comprendere i paesi dell’Europa Mediterranea, dell’Africa  Mediterranea inglobando anche alcuni paesi dell’Est Europeo).
Ma tutto ciò è utopia? E’ davvero nel mondo irrealizzabile di alcuni “sognatori marxisti”?
«La  crisi del capitale è sistemica e profonda, e sempre più si trasformerà  in una crisi sociale senza precedenti. La storia non ha percorsi lineari  ma procede con salti e rotture in funzione delle determinanti del  conflitto sociale, basato su sempre nuove e più articolate relazioni  sociali che modificano i rapporti di forza e che vanno indirizzati a  favore del movimento dei lavoratori, con intelligenza tattica ma senza  nulla concedere al capitale accettando impossibili ruoli di cogestione  della crisi. Di esempi ne abbiamo tanti: dal progetto alternativo  antimperialista, anticapitalista e di sistema dell’ALBA, fino a  soluzioni legate specificatamente solo alla risoluzione del problema del  debito, come ad esempio  anche in Europa l’Islanda, che non ha avuto  problemi a fare una scelta coraggiosa dichiarando il non pagamento del  debito pubblico alle società finanziarie e alle banche inglesi e  olandesi restituendo invece i soldi dei titoli pubblici ai piccoli  risparmiatori ma non ai potenti. In America Latina ci sono stati casi di  percorsi di default programmato, come l’Argentina che  a inizio di  questo nuovo secolo veniva data per spacciata, ha invece seguito un  proprio modello di sviluppo nazionale sottraendosi dal cappio dello  strozzinaggio dei potentati finanziari internazionali ed oggi è una  potenza emergente. Per far tutto questo c’è bisogno di una virtù che  oggi in Italia e in Europa fatica ad emergere, il coraggio politico di  una sinistra di classe che scelga da subito il terreno conflittuale per  la prospettiva dell’alternativa di sistema in chiave socialista». 
 
							     
					 
							 
							 
							 
						 
				 
    
			 
						 
    
			
		
	
 
    
			