L'anomalia del sistema bancario Italiano

Roma -

Le scalate bancarie di questa estate hanno posto all'attenzione del grande pubblico la questione del regime fiscale sulla rendita finanziaria.

Apprendere come un manipolo di speculatori sia riuscito ad incamerare un guadagno all'incirca di due miliardi di euro dalle operazioni borsistiche su Antonveneta e Bnl, senza doverne sborsare nemmeno uno al fisco, ha suscitato indignazione e sconcerto diffusi.
Dopo tali eccessi il problema della riforma della tassazione della rendita finanziaria è definitivamente entrato nell'agenda delle priorità politiche e programmatiche del Paese.

Accanto al dilagante fenomeno dell'evasione, infatti, la disparità di trattamento tributario esistente tra i redditi da lavoro e i redditi da capitale rappresenta la principale fonte di ingiustizia fiscale e ciò, in una situazione di crisi sociale come l'attuale, diventa sempre meno tollerabile.
I privilegi goduti dai redditi da capitale sono un fenomeno europeo e non solo italiano, perché la liberalizzazione dei mercati finanziari ha innescato un meccanismo di concorrenza fiscale al ribasso tra i diversi Paesi per attrarre investimenti.

Tuttavia, in Italia tale fenomeno ha assunto dimensioni assai maggiori.

Per avere una sintetica descrizione della disparità fiscale oggi esistente è sufficiente utilizzare un indicatore sintetico come l'aliquota implicita, che misura il peso medio del prelievo sui diversi redditi distinti in base alla loro fonte.
L'aliquota implicita sui redditi da lavoro è in Italia pari al 41, 1%.

Cioè, in media, su cento euro di salario lordo un lavoratore ne versa 41,1 al fisco, contro una media europea del 36,3%; per i redditi da capitale percepiti dalle famiglie l'aliquota implicita è del 16,4% (15,6% nella media Ue); per i redditi da capitale percepiti dalle società invece l'aliquota implicita è in Italia del 15,8% a fronte di un dato medio europeo pari al 22,4% (dati Commissione Europea, 2004).

In altre parole, in Italia non solo il prelievo medio sulla rendita finanziaria è poco più di un terzo rispetto a quello sul lavoro, ma risulta essere particolarmente avvantaggiata la rendita finanziaria percepita dalle imprese e dalle istituzioni finanziarie rispetto a quella delle famiglie.
Gli effetti di tale situazione sono pesanti, sia sul fronte della distribuzione del reddito e della ricchezza, diventata drammaticamente più ingiusta nel corso degli ultimi due decenni, sia sul fronte dello sviluppo economico. Infatti, il regime fiscale privilegiato, goduto in particolare dagli investimenti di carattere finanziario delle imprese, ha costituito un potente incentivo per dirottare le risorse disponibili verso la finanza e la speculazione, piuttosto che verso la produzione e l'innovazione, contribuendo così al declino industriale dell'Italia.
La riforma della tassazione della rendita finanziaria assume pertanto un carattere urgente e prioritario come misura di redistribuzione del reddito, come fonte di nuove entrate fiscali e come strumento di riqualificazione dell'apparato produttivo del Paese.
Il tema è tuttavia reso complicato dal fatto che attualmente l'imposizione sui redditi finanziari rappresenta una giungla inestricabile di provvedimenti disomogenei e incoerenti, che si sono finora sovrapposti gli uni agli altri senza un chiaro disegno organico.

Il fisco italiano ha, infatti, cercato di rincorrere, con norme particolari e specifiche, il ritmo forsennato di innovazione finanziaria, che ha caratterizzato l'ultimo quindicennio in seguito alla liberalizzazione dei mercati finanziari interni e internazionali, con l'intento di agevolare, piuttosto che di regolare su basi di efficienza e di equità, tali processi. Le categorie e gli strumenti con i quali il sistema tributario italiano ha affrontato la globalizzazione finanziaria sono rimasti infatti quelli tradizionali, costruiti quando i mercati finanziari erano segmentati e i prodotti erano pochi e ben separabili tra loro per funzione economica.
Oggi, tuttavia, la realtà è profondamente mutata perché, all'aumento esponenziale della tipologia di strumenti finanziari a disposizione del risparmiatore, si accompagna un elevato grado di sostituibilità tra le diverse attività finanziarie che rende anacronistica una differenziazione del loro regime fiscale. La conseguenza del permanere di profonde differenze fiscali tra le diverse forme del risparmio è tale che i piccoli risparmiatori, sprovvisti delle informazioni e delle sofisticate competenze tecniche necessarie per districarsi nella giungla tributaria, risultano penalizzati rispetto ai grandi operatori finanziari, che riescono a trovare sempre il modo per minimizzare l'impatto fiscale dei loro investimenti. Vediamo allora di tentare di districare un pochino la giungla fiscale italiana, prendendo in considerazione le anomalie più macroscopiche del nostro sistema.

Le anomalie del sistema italiano
La rendita finanziaria può essere definita come il flusso di reddito percepito dalla proprietà di un'attività finanziaria. Le forme che tale flusso di reddito può assumere sono diverse: i dividendi azionari, che sono costituiti dagli utili distribuiti da un'impresa ai soci e per loro natura sono variabili; gli interessi, che rappresentano la remunerazione fissa di un prestito concesso; e le plusvalenze, che sono generate dall'aumento del valore del titolo finanziario posseduto.
Con la sempre maggiore sofisticazione dei mercati finanziari le differenze tra queste forme di rendita tendono ad annullarsi, poiché è diventato possibile trasformare senza costi rilevanti una tipologia di attività finanziaria, la cui remunerazione è per esempio costituita da interessi, in un'altra, che frutta dividendi o plusvalenze, e viceversa. Il fisco italiano, invece, continua a trattare in maniera diversa le varie forme che la rendita può assumere e addirittura sottopone ad un diverso prelievo strumenti finanziari che appartengono alla stessa categoria, oltre a differenziare il trattamento sulla base della personalità giuridica del proprietario (società o persona fisica).
Lo strumento generale adottato, sia per i proventi finanziari delle imprese che per quelli delle famiglie, è stato quello dell'imposizione sostitutiva. Le rendite finanziarie, cioè, non rientrano nella base imponibile ordinaria dei redditi, ma vengono in genere tassate sulla base di regimi speciali. La prima e immediata conseguenza è che esse sono sottratte al principio costituzionale della progressività tributaria, perché tutti i soggetti pagano la stessa aliquota di imposta sulle rendite finanziarie, indipendentemente dal patrimonio posseduto e dal flusso di risorse generato. Il piccolo e irrisorio risparmio di una famiglia di pensionati risulta così tassato come l'immensa ricchezza finanziaria posseduta dalle famiglie Agnelli o Berlusconi.
La seconda conseguenza è che, in genere, le aliquote sostitutive applicate sulle rendite finanziarie sono inferiori a quelle ordinarie. Ad esempio, per le famiglie la gran parte dei redditi finanziari sono sottoposti ad un'aliquota del 12,5%, mentre l'aliquota minima Irpef è oggi pari al 23%, a cui si aggiungono i contributi sociali a carico del lavoratore. Soltanto alcune tipologie, diffuse in particolare tra i piccoli risparmiatori, come i depositi bancari e postali, sono tassati al 27%. Se confrontiamo questo sistema con quello vigente nel resto dell'Ue, ci accorgiamo che il regime fiscale italiano costituisce un'evidente anomalia.
In primo luogo, in alcuni Paesi (Spagna e Gran Bretagna) le rendite finanziarie rientrano a pieno titolo nella tassazione ordinaria e progressiva e in altri cinque Paesi (tra cui la Germania) la forma di tassazione è mista, in parte ordinaria e in parte sostitutiva. Questo gruppo di Paesi ha dunque un livello di tassazione della rendita finanziaria ben maggiore di quello italiano. Nei rimanenti Paesi europei, dove vige la sola imposta sostitutiva, il livello delle aliquote in media si colloca intorno al 22,5% e, in ogni caso, in nessuno di essi raggiunge la percentuale minima italiana del 12,5%.
Un regime ancora più favorevole vige per la tassazione delle plusvalenze, cioè dei guadagni di capitale derivanti dall'aumento del valore dei titoli. Per le società di capitali le plusvalenze detenute da oltre 12 mesi sono del tutto esenti da ogni forma di imposizione ed è per questo che gli speculatori estivi non hanno versato al fisco nulla dei loro immensi guadagni. Negli altri casi o viene applicata l'imposta sostitutiva del 12,5% oppure le plusvalenze vengono incluse nel reddito imponibile soltanto per il 40% del loro ammontare.
Questo particolare regime costituisce un fortissimo incentivo alla speculazione. Infatti, i guadagni speculativi non derivano dalla remunerazione ottenuta sui titoli posseduti (interessi o dividendi) ma dalla differenza di valore del titolo all'atto della vendita rispetto al momento dell'acquisto. In questo modo, attraverso una girandola di compere e di vendite, priva di qualsiasi contenuto economico reale, gli speculatori finanziari, che in genere sono rappresentati da operatori professionali, riescono ad accumulare immense ricchezze sulle quali subiscono un prelievo fiscale nullo o estremamente ridotto.
Di fronte a queste macroscopiche iniquità esistenti tra la tassazione dei redditi da lavoro e quella dei redditi da capitale, ormai tutti riconoscono che in teoria occorrerebbe intervenire per riequilibrare il prelievo, salvo poi avanzare dubbi e perplessità sulla possibilità reale di procedere in tale direzione. In genere le principali obiezioni che si incontrano sono di due tipi. La prima obiezione riguarda la fattibilità e consiste nel paventare il rischio di una fuga di capitali dal mercato finanziario italiano, accompagnata da un incremento dei tassi di interesse sul debito pubblico.
La seconda obiezione concerne invece l'opportunità e viene giustificata dal fatto che un aumento della tassazione sulla rendita penalizzerebbe i piccoli risparmiatori che hanno investito le loro modeste ricchezze in titoli pubblici. Vediamo allora se tali obiezioni hanno o meno fondamento.

Obiezioni senza fondamento
Per quanto attiene al rischio di una fuga di capitali, l'evidenza empirica ci suggerisce che esso è molto limitato. Come abbiamo visto, già oggi la tassazione dei proventi finanziari è molto diversificata in Europa e ciò non produce affatto un massiccio spostamento di capitali verso quei Paesi, come l'Italia, dove essa è minore. D'altra parte, con l'introduzione dell'euro si è osservata all'interno dell'Uem una sostanziale omogeneizzazione dei tassi di interesse nazionali, indipendentemente dalle condizioni fiscali o macroeconomiche dei vari Paesi, tanto da far ritenere che ormai gli operatori finanziari internazionali considerino il mercato finanziario europeo come un unico mercato integrato. Inoltre, dal 1° luglio di quest'anno è entrata finalmente in vigore la direttiva europea sulla tassazione dei proventi finanziari dei non residenti che, per la prima volta, potrà consentire gradualmente di sottoporre a prelievo i redditi derivanti dal possesso di attività finanziarie all'estero. Si può quindi concludere che non esistono seri ostacoli tecnici ad un incremento del prelievo fiscale sulla rendita finanziaria in Italia.
Per quanto attiene alla seconda obiezione, essa mostra un carattere di assoluta strumentalità se solo si guarda a chi possiede la ricchezza finanziaria nel nostro Paese. Dall'indagine sulla ricchezza delle famiglie italiane, effettuata dalla Banca d'Italia, emerge che ben il 55% dei titoli finanziari sono posseduti dal 10% delle famiglie più ricche, che in media hanno un patrimonio netto superiore al milione di euro, mentre il 50% delle famiglie italiane possiede appena il 12% della ricchezza finanziaria totale, con un patrimonio netto di circa 12.000 euro. Inoltre, mentre le famiglie più ricche investono prevalentemente in azioni e obbligazioni, tassate al 12,5%, le famiglie più povere detengono i loro pochi risparmi soprattutto nella forma di depositi bancari e postali, tassati oggi al 27%. Se prendiamo i soli titoli pubblici (Bot e Cct), ci accorgiamo che le famiglie dei lavoratori dipendenti e dei pensionati posseggono complessivamente soltanto il 10% del debito pubblico italiano, che per la restante parte è nelle mani delle famiglie più abbienti e, soprattutto, delle imprese e delle istituzioni finanziarie.
Questi dati sulla composizione sociale del possesso di ricchezza finanziaria confermano il fatto che i privilegi fiscali goduti dalla rendita finanziaria avvantaggiano oggi i settori più ricchi della popolazione e il grande capitale.

Tuttavia, per esentare completamente da ogni aggravio tributario il piccolo risparmio sarebbe sufficiente stabilire, come accade in diversi Paesi europei, una franchigia al di sotto della quale si continua a godere del regime di tassazione attuale, mentre solo al di sopra di essa scattano forme superiori di prelievo. Le risorse reperibili per il bilancio pubblico derivanti da una riforma della tassazione della rendita finanziaria sono considerevoli, se solo si pensa che in Italia l'ammontare di ricchezza finanziaria netta detenuta dai residenti è quasi quattro volte superiore al Pil, un valore ben maggiore di quello degli altri principali Paesi industriali. Se si procedesse in modo radicale, attraverso una completa parificazione delle rendite finanziarie ai redditi da lavoro in modo da conseguire una perfetta neutralità fiscale, ad esempio conteggiando i redditi da capitale nella base imponibile ordinaria, si può stimare un maggior gettito per circa 10 miliardi di euro. Ma anche qualora si volesse procedere in modo più graduale e morbido, unificando le attuali due diverse aliquote sui redditi finanziari ad un valore intermedio, i risultati sarebbero ugualmente significativi. A tal proposito, le stime effettuate mostrano che in caso di aliquota unica al 20% sulle rendite finanziarie le entrate fiscali aumenterebbero di 2,5 miliardi di euro, mentre qualora si prendesse a riferimento l'aliquota minima Irpef (23%) (che tra l'altro risulta essere vicina alla media europea di imposizione sulle rendite finanziarie), lo Stato incasserebbe circa 4 miliardi di euro in più. A tali somme si potrebbero poi aggiungere i proventi, pari ad oltre un miliardo di euro, derivanti dalla reintroduzione dell'imposta di successione sui grandi patrimoni, che esiste in ogni Paese dell'Ue oltre che negli Usa e che in Italia è stata abrogata dal governo Berlusconi. In conclusione, si può dunque affermare che una nuova e diversa politica economica che si ponga come obiettivi, da perseguire simultaneamente, la redistribuzione del reddito, la riqualificazione dell'apparato economico e l'equilibrio delle finanze pubbliche passa obbligatoriamente per un incremento della tassazione della rendita finanziaria. Questo solo strumento non è certamente di per sé sufficiente a far uscire l'Italia dalla crisi economica e sociale in cui oggi versa, ma senza dubbio esso è una condizione necessaria e ineludibile per qualsiasi progetto riformatore. C'è da augurarsi che finalmente nel prossimo futuro si possa trovare la volontà politica per realizzarlo, rompendo il dominio dei grandi interessi speculativi e parassitari che è tanta parte del declino del nostro Paese.